La crisi del lavoro dipendente
CIECHI: PERCHÉ IL FUTURO È INTRAPPRENDERE?
Mentre l'approccio all'attività di impresa aprirebbe ad essi orizzonti nuovi di integrazione umana oltre che di realizzazione occupazionale, scarsa rimane in ambito socio-istituzionale l'attenzione a formare chi non vede al lavoro autonomo
Negli anni in cui il lavoro dipendente offriva tutte
le garanzie per aspirare al posto sicuro, collocamento e
previdenza sono stati in Italia al centro delle battaglie dei ciechi, che hanno consentito loro di ottenere nei decennî passati importanti conquiste sul terreno del collocamento prioritario nelle mansioni allora ritenute ad essi più indicate (telefonisti, massaggiatori, insegnanti, ecc.), nonché su quello previdenziale e pensionistico.
Attualmente la maggioranza dei nonvedenti occupati in Italia è
costituita da massofisioterapisti, insegnanti, qualche avvocato, qualche distributore di strumenti ed ausilî per ciechi, ma soprattutto da centralinisti. Ma se da un lato quello del centralinista è (o è stato sinora) l'impiego più facilmente ed immediatamente ottenibile, è altrettanto vero che spesso si tratta di una mansione poco gratificante, a volte anche sul piano umano e relazionale con l'ambiente di lavoro.
Del centralinista cieco, per esempio, si nota spesso ciò che stupisce anziché ciò che vale realmente. Egli è bravo (aggettivo usato a sproposito), conosce a memoria tutti i numeri, è gentile, purché a ciò corrisponda un'estrema docilità verso i colleghi. Ma se un po' più di carattere e/o un livello culturale più alto gli consentono di uscire dalla sfera in cui certo immaginario collettivo vorrebbe collocarlo, allora è tabù. Già, perché un cieco sembrerebbe non avere motivo di aspirare a sfere che trascendono il logistico. A un cieco si parla solo di scalini, di ostacoli in arrivo ecc. ecc.. Ad un incontro conviviale organizzato, per esempio, dall'ufficio, al centralinista si offre la sedia (perché un cieco deve per forza stare seduto anche quando gli altri fanno due passi), e se quello chiede che cos’ha detto il telegiornale di mezz’ora prima, il (o la) collega di fianco o di rimpetto gli risponderà premurosamente dicendogli dov'è il bicchiere, dove sono le posate, ecc., e seguiterà poi a parlare con gli altri colleghi in attesa di rivolgersi al (prima di tutto) cieco non appena arriveranno, per esempio, le portate.
Del resto non sarebbe una novità se essere notati a parlare con quello suscitasse il giudizio poco positivo di chiconta e vedrebbe in ciò uno scadimento di profilo da parte dell’audace collega che a deciso di darsi a simile frequentazione, almeno che non si tratti di uno “sfortunato” come lui, anche se vedente, nel qual caso, tanto meglio: in caso di bisogno il fardello sarà tutto suo.
E dire che vi sono centralinisti ciechi che lavorando si sono pagati gli studî universitarî e si sono dignitosamente laureati, senza per questo ottenere, salvo rari casi, un minimo di gratificazione almeno morale da parte dei datori di lavoro ed hanno dovuto attendere, spesso invano, l'opportunità di un concorso, o simile, che permettesse loro di sperare in una riqualificazione. Per fortuna qualcosa ultimamente si muove, e a confermarlo è la notizia di qualche cieco recentemente assunto non come centralinista ma come operatore di procedura, mentre altri, inizialmente assunti come telefonisti, hanno potuto seguire un corso che li ha promossi a formatori per l'ente presso cui lavorano.
La progressiva automazione della telefonia pone ora anche per gli operatori ciechi serî quesiti sull'individuazione di nuove opportunità di impiego. Lo scetticismo dei datori di lavoro è spesso l'ostacolo primario, legittimato da obiettive perplessità sulla tenuta di una persona non-vedente
a ritmi di lavoro in cui l'aiuto della vista risulta risolutivo, come in certe mansioni d'ufficio, scandite da tempi precisi, cui chi non vede, non certo per incapacità, potrebbe far fronte a stento o con un elevato dispendio di energie.
Ma sono proprio gli sviluppi della telefonia e la sua progressiva informatizzazione a suggerire nuove soluzioni occupazionali almeno per i centralinisti più capaci. C'è chi vorrebbe, per esempio, dei corsi per operatori telefonici ciechi che intendono riqualificarsi in veste di assistenti tecnico-informatici a centrali telefoniche: un lavoro che sempre più si andrebbe identificando con quello di programmatori informatici, per formare i quali furono istituiti appositi corsi presso l'Istituto "Francesco Cavazza" di Bologna a cavallo degli anni '80. Si tratta, nello specifico, di suscitare l'interesse dei datori di lavoro, unito a quello delle case produttrici di centrali e centralini, per l'iniziativa che vedrebbe premiate le capacità dei diretti interessati riqualificandoli professionalmente, senza per altro escludere l'opportunità di porre detto lavoro nell'ambito di un'iniziativa imprenditoriale autonoma.
Ma nell'immaginario spesso ideologicamente condizionato di molti ciechi e disabili in generale l'impresa rappresenta l'altra parte della barricata, vale a dire un mondo indifferente, se non addirittura ostile, alle istanze dei cosiddetti più deboli, massima quando si parla di assunzioni.
Anzitutto chi ha un'azienda da mandare avanti deve preoccuparsi che chi lavora per essa, disabile o non disabile, sia in grado di rendergli, pena il rimetterci; né gli rimane poi molto tempo per fare, per esempio, volontariato. E a proposito di volontariato, chi opera in tale ambito, per esempio con le persone disabili, non di rado svolge un mero servizio per lo più limitato alla sfera logistica, lontano da aspirazioni di carattere relazionale, per finire a volte col riversare problemi e frustrazioni proprie su soggetti ritenuti disposti a farsene carico pur di non rimanere soli. Meglio poi se si tratta dei cosiddetti "disabili di ruolo", vale a dire coloro che, per le proprie maniere di porsi, finiscono per fare della propria disabilità l'elemento caratterizzante della propria stessa personalità e che tanto piacciono ad occhialuti funzionarî e burocrati in cerca di fenomeni da baraccone per stupirsene, versare la rituale lacrimuccia di commozione, compiere la buona azione e vedere così appagato il proprio bisogno di visibilità. Sarebbe invece l'estrema normalità negli atteggiamenti ed uno spiccato dinamismo da parte del disabile a frustrare ulteriormente il filantropo, il quale, nel sentirsi da quegli inaspettatamente superato e leso nel proprio ruolo di protettore, non troverebbe soluzione migliore che quella di emarginarlo ulteriormente, quasi a ritrovare con ciò il proprio ruolo di "regista" nel rapporto con costui. Diversamente, per chi fa impresa la relazione con il disabile, quando non forzata da obblighi di legge o dettata da una certa prassi volontaristica, rimane un fatto casuale, generalmente libero da preconcetti. Un dato apparentemente banale ma fortemente emblematico viene dai matrimonî di persone cieche con altrettante in condizioni normali. Fatti salvi gli insegnanti, tra i quali lo spirito di casta sembrerebbe spesso e volentieri superare anche la pregiudiziale della ciecità, quando a non vedere sono invece centralinisti o simili, coloro che decidono di convolare con essi a giuste nozze, quando non sono di limitata personalità (perché secondo taluni chi non vede deve sapersi all'evenienza accontentare di ciò che gli altri hanno scartato), difficilmente sembrerebbero essere colleghi o colleghe di lavoro, bensì, strano a dirsi, si tratta per buona parte di persone che svolgono un lavoro in proprio. Semplice coincidenza oppure no, per dirla con Pirandello, "così è, se vi pare".
Ci si chiede allora se mai sarebbe opportuno incentivare i rapporti tra disabili e mondo dell'impresa. Ma per far ciò è necessaria una nuova politica del lavoro e della formazione professionale, che non si limiti, come spesso accade, a formare futuri dipendenti da far assumere per forza, ma che siamaggiormente attenta anche a quei disabili che intendano fare impresa, aiutandoli così ad inserirsi in quel mondo e a rapportarsi pienamente con esso, in grado di creare essi stessi occupazione, finalmente protagonisti e non più semplici esecutori del proprio lavoro.
Ma un'emancipazione in tal senso potrebbe sembrar destare in certe frange del mondo associativo il timore di veder diminuito il proprio ruolo di tutore, con quanto ne potrebbe conseguire in termini di visibilità istituzionale. È quel che sarebbe accaduto anni addietro da parte di certo mondo sindacale ove l'idea di alcuni datori di lavoro di trasformare i proprî operai da semplici dipendenti ad azionisti dell'azienda non sarebbe stata vista con soddisfazione bensì con preoccupazione, poiché ciò portava i lavoratori in tal modo emancipati a lavorare con tutt'altra motivazione e a non porre più in primo piano le antiche rivendicazioni proletarie che davano lustro ai loro tutelanti.
Si ha di tanto in tanto notizia di corsi per nonvedenti, finanziati anche con fondi europei,i quali fornirebbero potenzialmente le basi per un interessante sviluppo in tal senso nell'ambito dei servizî, alternando
momenti di preparazione teorica ad altrettanti di sperimentazione pratica nel settore delle telecomunicazioni, della gestione
aziendale e dell'indagine di mercato.
Tuttavia, poco pubblicizzati o, per precise direttive europee, riservati a nonvedenti rimasti disoccupati o in attesa di primo
impiego (fortunatamente ancor oggi un'esigua minoranza), molti di questi corsi
finiscono per naufragare puntualmente per insufficienza di iscritti, mentre non si tiene per lo più conto di quante altre
persone hanno dovuto adattarsi, perché cieche, ad un lavoro al di sotto delle proprie reali capacità ed aspirazioni, in attesa
di un'opportunità di riqualificarsi professionalmente, non escludendosi per esse l'eventualità di un'attività in proprio, che l'utilizzo ormai diffuso di sistemi informatici muniti di trasduttore braille (tattile) o vocale dei dati a video rende possibile anche ad un cieco, consentendogli di organizzarsi il lavoro come crede, non più dipendente, bensì in grado di divenire persino egli stesso datore di lavoro, con quanto ne conseguirà in termini di immagine e di rapporti sociali. Particolare considerazione meritano artigianato e attività manuali, a lungo vituperate quale lavoro di ripiego per una persona cieca, ma che in Italia costituiscono un importante settore dell’economia, e che per i piùcapaci, può costituire un valido aggancio con il mondo della piccola e media impresa.
A livello internazionale, per lo meno europeo, la risposta sembra egualmente evasiva, segno della poca attenzione riservata al problema, nonché del fatto che chi assurge a cariche di rappresentanza dei ciechi a quei livelli, spesso è chi, grazie anche a cospicui mezzi economici, non ha o non ha avuto i problemi poc'anzi menzionati ed ha perciò la tendenza a ragionare da addetto ai lavori, lontano dalla massa dei ciechi e dai loro quotidiani problemi. Progetti altisonanti, convegni e quant'altro spesso sono oggetto di un turismo di alto bordo da autentico "jet set" in occhiali scuri, mentre ai ciechi con minor fortuna non resta che sognare. E quando il sogno lascia il posto alla frustrazione, ai più capaci non rimane che la scalata a qualche importante carica associativa che, in caso di successo, li sottragga ad un'ingombrante ed uniforme quotidianità. (G.L. Ugo)
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