Alunni ciechi
L'INTEGRAZIONE SCOLASTICA AD OGNI COSTO
Tra fondi che scarseggiano e libri che non arrivano
Le notizie che appaiono sull'argomento nei giornali pressoché ad ogni inizio di anno scolastico testimoniano ancora una volta le difficoltà pratiche nel far studiare in maniera indiscriminata alunni ciechi nella scuola comune, vero cavallo di battaglia della demagogia sessantottina, e postsessantottina che ha fatto dell'handicap uno dei principali generi di monopolio del progressismo "bene". In realtà questo era anche il sogno di Augusto Romagnoli, che, a partire dai primi anni del '900, diede un importante impulso al processo di scolarizzazione dei privi di vista in Italia, mediante l'introduzione, sin dai primi decennî del secolo, di nuove metodologie destinate a rimanere a lungo veri capisaldi della didattica per non-vedenti, e che fanno del Romagnoli uno dei padri della moderna tiflopedagogia.
Tuttavia, seppur favorevole alla coeducazione dei ciechi assieme ai vedenti, egli si rese ben presto conto delle difficoltà dovute sia all'impreparazione del personale insegnante del tempo, che dell'impossibilità concreta di raggiungere buoni risultati se non mediante un programma scolastico differenziato, presso apposite strutture adatte ai tempi e i modi di apprendimento dei ciechi, a volte così dissimile da quello dei vedenti.
Quasi un secolo prima, in Francia, Louis Braille aveva ideato l'omonimo sistema di scrittura a puntini che permetteva finalmente ai ciechi di leggere e scrivere, mentre le materie come geografia e scienze , abbisognavano di apposito materiale a rilievo. Si dovette così avviare una massiccia trascrizione di libri, unita alla produzione di materiale didattico che colmasse il vuoto in tal senso e giungesse in tempi brevi nei diversi istituti d'Italia che, in ottemperanza al regio decreto che estendeva ai cittadini non-vedenti l'obbligo scolastico, da semplici ricoveri, venivano man mano nel frattempo eretti a veri e proprî complessi scolastici. Gli alunni vi soggiornavano durante l'intero anno di scuola per rientrare durante le vacanze alle proprie case, spesso in località rurali e lontane dalla città in cui studiavano. Molti di essi entravano negli istituti per riprendere la scuola dopo averla interrotta causa l'incidente o la malattia che aveva compromesso loro la vista, bloccandoli in casa spesso per anni. Tornavano così a sedere ai banchi di scuola già adolescenti od oltre, con quanto ne conseguiva sul piano psicologico, mentre a risentirne erano anche coloro i quali, sebbene ciechi, frequentavano la scuola all'età prescritta. L'impatto con i più grandi spesso non era dei più felici, quando l'ingenuità puerile dei primi si scontrava con la spavalderia dei secondi; e se tra questi ultimi v'era chi possedeva un discreto residuo visivo, non mancava di far pesare una sorta di supremazia propria e del proprio branco sugli altri.
Gli anni più recenti videro poi l'arrivo consistente di alunni con altri problemi, per lo più mentali, oltre alla cecità, un tempo destinati a soccombere e che il progresso medico sottraeva vieppiù alla morte ma non al resto. E se in un primo tempo essi venivano indirizzati in strutture specializzate quali l'Istituto Serafico di Assisi, il bisogno di fondi, pena la chiusura, indusse gradualmente anche gli altri istituti ad accoglierne. La prolungata convivenza con una tale varietà di soggetti non contribuiva di certo ad una crescita ottimale degli altri alunni; e se coloro che abitavano nella stessa città potevano contare sul fine-settimana in famiglia, per gli altri bisognava attendere le vacanze, dato che, sin anche negli anni '60 e '70, i mezzi economici di molte famiglie e quelli di trasporto non erano quelli di oggi.
Giunti alle soglie dell'adolescenza od oltre dopo una vita da collegiali, i giovani non-vedenti uscivano dall'istituto in una condizione di indubbio svantaggio verso i loro coetanei vedenti. Di ciò si fece forte chi, sull'onda delle contestazioni del dopo-'68, ritenne un po' frettolosamente superato l'insegnamento speciale per i ciechi e i disabili in genere. Una serie di riforme legislative varate nel corso degli anni '70, portò così alla progressiva chiusura delle scuole speciali. Ma se ciò diede per lo meno l'illusione di un'opportunità in più per i bambini non-vedenti di integrarsi con gli altri alunni, questa veniva vieppiù a scontrarsi con l'obiettiva impreparazione del personale docente, mentre l'opera degli insegnanti di sostegno, quantunque preparati, non riesce tutt'oggi a trasmettere sempre tutte quelle conoscenze che gli insegnanti dei vecchî istituti sapevano dare a tempo pieno ai proprî allievi. Posture e mobilità erano aspetti cardine su cui poggiava l'intero palinsesto educativo, mentre economia domestica e lavori manuali erano parte integrante del programma scolastico delle alunne e, rispettivamente, degli alunni ciechi, ciò che ha consentito loro in séguito di gestire dignitosamente il proprio quotidiano, dalla cucina ai piccoli lavori di casa. Scarsa è poi la padronanza che gli alunni d'oggi hanno della stessa scrittura Braille, che apprendono, ma non gestiscono con la disinvoltura dei loro "compagni d'ombra" usciti dalle scuole di un tempo. Leggono poco e al libro in braille preferiscono la stessa opera in versione audio. I vecchî testi scolastici erano invece tutti rigorosamente in Braille, salvo che per gli ipovedenti, che li avevano in nero (scrittura per vedenti, nel gergo dei ciechi, n.d.r.) a caratteri ingranditi, ed erano più o meno gli stessi in tutti gli istituti per ciechi d'Italia, con un conseguente notevole contenimento dei costi di produzione. Ora ciò non è possibile, poiché ogni alunno non-vedente frequenta una scuola diversa e perciò con diversi libri di testo, che mutano annualmente e devono essere dunque stampati apposta per ognuno in copia singola, senza quasi la speranza di poterli conservare per eventuali altri alunni che frequenteranno quella classe di lì a qualche anno, con quanto ne consegue in termini di investimenti pubblici. E mentre in passato era la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi ad occuparsi della trascrizione dei testi ed alla loro distribuzione presso i varî istituti, ora invece il coinvolgimento di troppe strutture ed istituzioni (comuni, regioni, ASL, e quant'altri) è spesso alla base di frequenti malfunzionamenti organizzativi, per cui non è raro che, iniziato l'anno scolastico, l'allievo non disponga ancora del materiale necessario per studiare.
Scetticismi e perplessità non mancano attorno a tutta la questione, e non manca chi, dall'interno delle stesse associazioni dei ciechi ha di tanto in tanto qualche ripensamento rivolto, almeno per le classi elementari, al vecchio istituto, non certo come al convitto di un tempo, ma come ad una scuola speciale, sicuramente meglio in grado di seguire passo passo la formazione e la crescita scolastica dell'alunno non-vedente. D'altro canto è oltremodo essenziale far vivere ai ragazzi esperienze che ne incentivino l'integrazione nel mondo di tutti. In alternativa al vecchio internato, v'è chi pensa all'eventualità di far risiedere gli alunni durante la settimana presso famiglie della città aventi il ruolo di "coeducatrici": il tutto sulla falsa riga di quanto accade già, in un certo qual modo, per migliaia di studenti i quali si recano all'estero per soggiornarvi ed imparare le lingue e trovano alloggio presso famiglie locali selezionate, convenzionate con i diversi centri di formazione.
Diversamente però da quanto sopra, nel nostro caso la scelta delle famiglie non potrebbe, ben inteso, limitarsi a generiche regole comportamentali e di rapporto con ospiti la cui formazione compete in ogni caso ad altri. Di provata integrità morale, le famiglie dovrebbero qui seguire, nella persona di almeno uno dei loro componenti, opportuni corsi di formazione a quello che dovrebbe essere un vero e proprio lavoro regolarmente retribuito e tutelato in base ad opportune normative in materia assicurativa e di responsabilità giuridica. Ciò consentirebbe in tal modo di rendere il soggiorno lontano dalla famiglia di gran lunga più piacevole e stimolante per l'alunno, che, come auspicava lo stesso Romagnoli, acquisirebbe probabilmente un bagaglio di conoscenze maggiore che rimanendo nel luogo d'origine, ciò che gli consentirebbe di colmare in buona parte il divario con i coetanei vedenti. Inoltre nella famiglia in città egli troverebbe sia l'autorevolezza di validi educatori, sia il calore di una casa, in attesa di rientrare periodicamente alla propria.
Si tratta, in buona sostanza, di far sì che i primi anni di scuola siano fondamentali per l'istruzione degli alunni ciechi, in quanto meglio si addicono all'acquisizione di quelle conoscenze ed abilità atte a garantir loro l'autonomia necessaria ad affrontare con sufficiente disinvoltura, sebbene debitamente supportati, le successive tappe del curriculum di studî nelle strutture comuni. (G.L. Ugo)
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