PIANO SIGNOR RIVLIN
Reuven Rivlin alla Knesset: FINI DEVE RICONOSCERE LA COLPA DELL'ITALIA

  Si esprimeva così dalle pagine del quotidiano Ha'aretz del 26 novembre di qualche anno fa l'allora presidente della Knesset, il parlamento israeliano, Reuven Rivlin, al quale non erano sembrate sufficienti le rassicurazioni che l’allora vice primo ministro italiano, Gianfranco Fini, nella sua visita in Israele, doveva aver fatto dichiarando che il suo partito, Alleanza Nazionale, non intendeva più avvalersi dell'eredità fascista.
  Visto il permanere di un tale sentimento, la prima cosa da chiederci è se mai non fosse stato il caso di rinviare il tutto a tempi migliori, mentre rimane pressoché sconosciuto ai più il reale sentimento del regime fascista nei confronti degli Ebrei, il quale, quand’anche esso fu tutto meno che idilliaco, esso non raggiunse il grado di ostilità che contrassegnò le vicende degli Israeliti soggetti al regime di Hitler.
  Cominciamo col dire che Mussolini non era fondamentalmente antisemita, tanto che a dirigere il periodico "Gerarchia", organo del partito fascista, fu a lungo una tal Margherita Sarfatti, ebrea, come ebrei furono diversi pezzi grossi del potere durante il Ventennio. Mussolini non nascose infatti la propria gratitudine ai numerosi israeliti che si erano resi meritevoli nel proprio servizio alla Patria. Diremo piuttosto che l'ostilità del Duce era verso certo mondo ebraico internazionale che, nella riforma protestante prima e nell’illuminismo poi, avrebbe trovato, secondo alcuni, l’alimento ottimale per porre in essere quel mondo economico e finanziario che, a partire da fine Settecento, diveniva punto di riferimento per un nuovo concetto di ordine mondiale e che il capo del Fascismo identificava nelle plutocrazie occidentali che minacciavano, a suo dire, l'esistenza e l'identità stesse del popolo italiano.
Non mancarono infatti uomini d’arte e di cultura ebrei che dalla Germania nazista, trovarono ospitalità e rifugio nella più tollerante Italia fascista. Ciononostante, molti tra essi non mancarono di agire contro il governo di Mussolini, il quale, logicamente, andò così progressivamente irrigidendosi, e intanto si giunse alle ben note leggi raziali del 1938, che, oltre a quella di Mussolini, portavano la firma dello stesso Vittorio Emanuele III, il cui noto legame con la real casa britannica degli Windsor, poteva far sembrare più prossimo alle istanze del mondo ebraico di quanto potesse essere il maestro di Predappio. Costui era infatti favorevole alla nascita dello stato di Israele, tanto che, tra il 1934 e il 1937, quasi duecento ufficiali della futura marina israeliana si erano formati alla Scuola Marittima di Civitavecchia, mentre ben altro accadeva in Palestina, sotto il protettorato degli Inglesi, contrarî allo stato ebraico. Sorge a questo punto la domanda se mai le leggi raziali in Italia furono volute dal Duce quale atto di compiacenza all'alleato tedesco o fossero il risultato di pressioni di ben altra provenienza volte ad ottenere una minore attenzione di Roma verso le aspirazioni ebraiche, forse in cambio di una maggiore libertà operativa per l'Italia nel Mediterraneo. Del resto, nel 1938, era da tempo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, notoriamente filobritannico, il che è tutto dire.
Il signor Rivlin avrebbe fatto bene rifletterci un momento prima di sguainare indiscriminatamente la spada sul fascismo, che, si badi bene, non è esule da errori e responsabilità. "Questi schifosi ebrei, bisogna che li distrugga tutti", avrebbe detto una volta il capo del fascismo, stando ai diarî di Claretta Petacci; ma malgrado l'infelice esternazione, forse dovuta più alla focosità romagnola del Duce che ad un reale proposito di "soluzione finale", fu grazie agli Italiani e, paradossalmente, allo stesso Mussolini, se migliaia di Ebrei italiani e non solo sfuggirono ad infausti destini durante la guerra. Ne parla, tra gli altri, Menachem Shelah, ebreo vissuto in Dalmazia, nel libro “Un debito di gratitudine”, pubblicato nel 1991 dallo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano. Non meno fondamentale il volume di Fabio Andreola “Mussolini segreto nemico di Hitler”, che illustra i frequenti disagi del Duce nei rapporti con i vertici del partito nazionalsocialista, più ancora che con il loro capo, che all’omologo italiano si era ampiamente ispirato.
L’Andreola non fa inoltre mistero su come, guarda caso fossero proprio gli Ebrei a costituire spesso e volentieri motivo di divergenze tra i due personaggi. Ne consegue paradossalmente che quello che per l'Italia fu una scelta fatale, non sembra esserlo stato invece per tanti Ebrei di quei territorî che l’intervento in guerra dell’Italia vide occupati da quest’ultima anziché dalla Germania. E dovevano rendersene conto in diversi. Léon Bloom, autorevole esponente socialista francese dal cognome spiccatamente ebraico, si oppose sino all’ultimo alle rivendicazioni territoriali di Parigi nei confronti dell’Italia, e gli Ebrei di Nizza, alcuni dei quali intervistati anni fa da RAITRÉ, non esularono dal trarre un sospiro di sollievo quando gli Italiani si decisero finalmente (è il caso di dirlo) a piantare nel 1942 il tricolore nella città natale di Garibaldi. Dove sarebbero finiti quegli ebrei se, assente l’Italia dal conflitto, la Francia fosse finita, come sarebbe stato logico immaginare, per intero sotto occupazione tedesca? Ci avesse pensato un attimo il signor Rivlin prima di parlare a sproposito. (G.L. Ugo)


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