DALL'EURO AL... FIORINO?
Il piano segreto per uscire dall'euro


La situazione, se non fosse tragica, sarebbe persino ridicola. Infatti, mentre pubblicamente è quasi vietato parlare di uscita dall’euro perché appena uno la nomina viene sommerso dai fischi e dai pomodori, in privato, nei sotterranei dei grandi istituti e nei caveau delle banche, si preparano tutti i piani dettagliati per far fronte all’ipotesi che viene ritenuta qualcosa di più di un’ipotesi.

Almeno una probabilità. Vietato dirlo, però: il popolo bue, come al solito, viene mandato al macello nella più totale ignoranza. «Non bisogna diffondere il panico» è la parola d’ordine. Per carità, il panico non va mai bene. Ma davvero esso nasce dalla conoscenza dei fenomeni? O piuttosto dall’ignoranza? Oggi, per dirne una, sappiamo come si formano i fulmini, e per questo essi ci fanno meno paura di quanta ne facevano agli antichi, che al contrario non ne conoscevano la natura. E allora: perché, in materia economica, c’è qualcuno che ci vuol riportare all’oscurantismo di Giove Pluvio?

Nell’ottobre 2013, per esempio, Mediobanca ha preparato un rapporto di 122 pagine che è rimasto finora completamente riservato. Mai stato pubblicato. In Italia non ne ha parlato nessuno. L’unico a farne un accenno è stato il quotidiano inglese «Telegraph» in un articolo del 30 ottobre. Eppure si tratta di un documento esplosivo perché sostiene, in pratica, che l’Italia è vicina al capolinea, che il sistema sta per esplodere e che il nostro Paese sarà costretto a uscire dall’euro. Si badi bene: Mediobanca non lo auspica, non chiede un ritorno alla lira, continua stoicamente a considerare la disciplina monetaria europea come l’unica possibile. Però non può fare a meno di prendere atto che staremmo assai meglio se fossimo fuori dall’euro. E che saremo costretti a uscirne se gli Stati del Nord Europa continueranno con la loro politica economica aggressiva nei confronti degli Stati del Sud. Il passaggio chiave di questo documento riservato, che ho modo di consultare mentre scrivo, è a pagina 35-36 quando gli analisti di Mediobanca citano il cosiddetto «ciclo di Frenkel», cioè i sette passaggi chiave attraverso i quali un sistema a cambi fissi che non funziona si avvia alla distruzione. È uno degli argomenti principi di tutti i teorici del no-euro, perché il calvario di un’unione monetaria in difficoltà si manifesta sempre allo stesso modo, in tutte le crisi mondiali, dal Cile all’Argentina, e si conclude con l’ultima delle sette fasi, cioè quella del «collasso», in cui tutto salta per aria. Ecco, secondo Mediobanca, uno degli istituti finanziari più autorevoli del nostro Paese, il «ciclo di Frenkel si applica perfettamente» all’Europa del Sud (pagina 35) e dunque quello che ci aspetta è inevitabilmente il settimo punto del «ciclo» (pagina 36): «Il collasso: un attacco speculativo costringe i Paesi a lasciare il sistema a tassi fissi e a svalutare la moneta».

Ma perché dobbiamo aspettare il giorno del giudizio universale senza sapere nulla? Perché dobbiamo restare nell’ignoranza? Il «Telegraph», nel riferire del documento Mediobanca, sottolinea che per l’Italia il crash non sarebbe così disastroso: abbiamo un debito estero inferiore agli altri Stati del Sud, ancora molti risparmi privati, un avanzo primario in bilancio. «L’Italia può lasciare l’euro quando vuole, ed è abbastanza grande da superare lo shock.» Ma perché di tutto ciò non si può parlare apertamente? Perché si tengono i loro studi nei cassetti? «C’è paura ad affrontare questi temi, soprattutto ad affrontarli apertamente, ma sono all’ordine del giorno sulle piazze finanziarie» ci confessa una voce raccolta nel fondo di un caveau. E ci dà qualche indicazione per raccogliere la prova di quel che dice.

I report di questo genere, in effetti, abbondano. E tutti prendono in considerazione il crollo della moneta unica. «Uscita dall’euro e break-up» è il documento pubblicato dalla banca d’affari Nomura nel novembre 2012, «Risposta a 10 domande sull’Euro break-up» è il documento pubblicato da J.P.Morgan nel dicembre 2011, «Piano per un ordinato break-up dell’Unione monetaria europea» è lo studio realizzato da Jens Nordvig e Nick Firoozye sempre per Nomura nel gennaio 2012. Nel luglio del medesimo anno è la volta della Merrill Lynch: secondo il report della banca d’affari, l’Italia avrebbe «tutto l’interesse» a uscire ordinatamente dall’euro, a patto che lo faccia prima degli altri (Grecia e Spagna). A perderci sarebbe soltanto la Germania.

Della stessa opinione anche un centro studi molto quotato nella City londinese, il Lombard Street Research, che nell’elaborare un report dedicato all’Olanda e all’euro (marzo 2012), a pagina 18 ipotizza, fra le altre, anche la possibilità che esca dalla moneta unica solo l’Italia, aggiungendo che di tutte le uscite questa sarebbe una delle meno costose. «L’Italia potrebbe tornare rapidamente a crescere» sostengono gli analisti. Anzi: il ritorno alla vecchia moneta sarebbe per il nostro Paese quasi una passeggiata, soprattutto se paragonato a ciò che ha passato negli ultimi dieci undici anni. Ma il report prende in considerazione anche altre possibilità: che lascino la moneta unica solo la Grecia e il Portogallo, oppure la Spagna, oppure l’Olanda con la Germania, oppure anche l’Olanda da sola. Sembra quasi una partita a poker: chi farà la prima mossa? E soprattutto: chi rimarrà fregato con le carte (inutili) dell’euro in mano?

Comunque, al di là delle singole e molto tecniche questioni affrontate da questi studi, quello che a noi interessa è sottolineare che il tema dell’uscita dall’euro, negli uffici dell’alta finanza, è all’ordine del giorno. Se ne parla nei corridoi, nei sottoscala, nei bunker riservati dei grandi centri direzionali. Lo conferma l’economista Eugenio Benetazzo, definito il Roubini italiano, uno dei pochi che aveva previsto in anticipo la crisi del 2008 con un best seller (Duri e puri) assai controcorrente. Nel suo Neurolandia Benetazzo parla degli «eurokiller», e cioè di quei «grandi operatori istituzionali, banche d’affari, amministratori di risparmio gestito, fondi pensione, che ritengono che l’euro abbia gli anni contati per ragioni strutturali e socioeconomiche». E perciò «stanno attivando politiche per trarre beneficio dal previsto default».

Ma perché nulla di questo dibattito trapela? Perché non viene alla luce del sole? Perché devono prepararsi a trarne beneficio solo i grandi operatori istituzionali e le banche d’affari? Se davvero l’Italia ha la possibilità di salvarsi uscendo dall’euro prima degli altri (come dice Merrill Lynch), perché questo non viene spiegato anche agli italiani? Perché, al contrario, ogni volta che si pone la questione dell’euro si viene liquidati con un’alzata di spalle e un’occhiata di disprezzo?

La Greenwich Treasury Advisors, società di consulenza che ha fra i suoi clienti le più grandi multinazionali, dalla Ibm alla Siemens, dalla Monsanto alla General Motors, segue con attenzione lo sviluppo della situazione anche perché, scrive nel suo report, «in democrazia non possono essere sostenuti piani di austerità per molti anni consecutivi» e dunque la rottura del patto dell’euro da parte di qualche Paese che non ce la fa più a reggere la situazione è da mettere in conto. Anche questa relazione, ovviamente, è rimasta sconosciuta agli europei (non certo alle multinazionali). L’unico documento di questo genere di cui si è avuta notizia è quello realizzato nel settembre 2011 dall’Ubs, l’Unione delle banche svizzere, perché è piuttosto catastrofico nelle sue stime e prevede costi altissimi per i cittadini europei in caso di uscita dall’euro. Eppure anche questo rapporto, tanto caro agli europeisti, comincia così: «L’euro ha creato più costi economici che benefici ai suoi membri. E per questo potrebbe non esistere più»…

Sin qui Mario Giordano in alcuni stralci del suo volume «Non vale una lira. Euro, sprechi, follie: così l’Europa ci affama». Ora, se è vero che la moneta rappresenta l'unità di un paese e della sua economia, con l'euro non ci siamo proprio.
In un articolo scritto tempo addietro in queste pagine si illustravano le ragioni dell'inopportunità di concepire il futuro dell'Europa come quello di uno stato federale. Estremamente vario nella geografia, il Vecchio Continente presenta diverse aree subcontinentali che hanno determinato il formarsi delle singole nazioni, ciascuna con la propria storia e la propria identità. Più sommariamente possiamo dire che v'è unEuropa settentrionale e occidentale che differisce fondamentalmente dall'Europa centro-orientale e centro-mediterranea. Nella prima ad una concezione prevalentemente verticale della società si affianca un'economia in cui pregnante è il ruolo delle grandi realtà imprenditoriali e della finanza, mentre ad oriente di una linea che da Stettino giunge alle Alpi Marittime una società maggiormente fondata su relazioni interpersonali più intense fa da sostrato ad un'economia che vede protagonista la piccola e media impresa, emanazione più o meno diretta della famiglia o di altrettante tipologie di aggregazione medio-piccole.
La pretesa occidentale di omologare il tutto al proprio modello può dirsi alla base del fallimento dell'euro, senza per altro considerare che ad ovest vi sono nazioni come la Francia, la Spagna, la Germania, ecc. ciascuna con un trascorso storico di grande potenza anche coloniale, sostanzialmente incompatibile con quanto accade ad est, ove realtà come l'Italia e i paesi dell'area danubiana presentano economie fortemente complementari tra loro e perciò maggiormente in grado di favorire una reciproca integrazione economica, monetaria e, perché no, anche politica, purché indipendente dall'occidente, dando così vita a quell'Europa di mezzo tanto temuta ed avversata in ripetute circostanze della nostra storia. (G.L. Ugo)


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